Il Blog sulle lingue di Abbey School

“Famiglia” non vuol dire sempre la stessa cosa

Un viaggio nelle lingue e nei legami umani

Quando inizi a studiare una nuova lingua, una delle prime parole che impari è quasi sempre “famiglia”. Ti sembra facile, no? “Famiglia”, “familia”, “family”, “famille”… più o meno si assomigliano tutte. Ma appena vai un po’ più a fondo, capisci una cosa importante: la famiglia non è una struttura fissa.
Non solo cambia il modo in cui la chiami. Cambia quello che rappresenta. Cambiano i legami, l’intimità, il rispetto, le gerarchie, perfino le aspettative affettive.
E tutto questo, piano piano, lo scopri attraverso le parole.


Le parole non sono mai solo parole

In italiano, ad esempio, “zio” è una parola semplice: è il fratello di tua madre o di tuo padre. Fine. Ma se inizi a studiare l’arabo, ti accorgi che esistono due parole diverse:

  • ‘amm (عمّ) per lo zio paterno
  • khal (خال) per quello materno

E non è un dettaglio linguistico. In molte società arabe, lo zio paterno ha un ruolo più formale, quasi istituzionale, mentre quello materno è spesso percepito come più vicino, affettuoso, confidente. La lingua non fa che rendere visibile qualcosa che nella tua lingua, magari, è rimasto invisibile.

È lo stesso in cinese. Non esiste “zio” in senso generico: c’è uno zio per ogni direzione della famiglia. Se è il fratello maggiore del padre è bóbo, se è quello minore è shūshu, se è il fratello della madre è jiùjiu. Ogni figura ha un nome preciso, e ogni nome porta con sé una rete di significati culturali, sociali e relazionali.


In tedesco è (quasi) tutto sotto controllo

Se passi al tedesco, ti ritrovi in un sistema apparentemente ordinatissimo. Le parole si costruiscono con logica, come pezzi di un puzzle. Il nonno è Großvater, letteralmente “grande padre”, e il nipote (di figlio) è Enkel, mentre quello di zio è Neffe (maschio) o Nichte (femmina).
Ma anche qui la lingua riflette la cultura: in Germania, la famiglia tende a essere percepita in modo più nucleare e individualista, e anche linguisticamente i legami collaterali hanno un ruolo meno centrale rispetto, per esempio, al contesto arabo o slavo.


Nei paesi dell’Est la famiglia è una cosa seria

In Russia, in Polonia, in Bulgaria, il concetto di famiglia è ancora oggi profondamente radicato nella vita sociale. Non solo nei ricordi, ma anche nella pratica quotidiana: non è raro che tre generazioni vivano insieme, o che cugini e zii partecipino attivamente alla crescita dei figli.

E questo si riflette nella lingua. In russo, per esempio, la parola семья (sem’ya) significa famiglia, ma non è ristretta a genitori e figli. E anche qui, i nipoti si dividono: внук (vnuk) è il nipote da parte dei figli, племянник (plemyannik) quello da parte dei fratelli. In polacco, la lingua distingue se il nipote arriva da un fratello o da una sorella: bratanek o siostrzeniec. Sono sfumature che dicono tanto sul peso che ogni relazione ha nella comunità.


In America Latina, la famiglia è anche il cuore

In Brasile, o in Messico, ti accorgi presto che la parola “família” o “familia” non ha solo un significato biologico. È anche una rete emotiva, di appartenenza, di comunità. È normale che bambini chiamino “tío” o “tia” anche amici di famiglia, o vicini di casa. Non è solo affetto: è una forma di rispetto e riconoscimento.

In questi contesti, la famiglia non è necessariamente “quella di sangue”. È quella che ti sta accanto, che ti cresce, che ti protegge. E la lingua lo permette, lo incoraggia, lo vive.


Famiglie nuove, lingue che si adattano

Poi ci sono le famiglie che fino a poco fa non avevano neanche un nome nelle lingue ufficiali: famiglie con due mamme, due papà, famiglie ricomposte, genitori single, famiglie di amici. La realtà è cambiata, e anche le parole stanno cercando di starle dietro.

In inglese è facile dire parent senza specificare mamma o papà, o parlare di chosen family. In francese si parla sempre più di co-parents, in italiano iniziano a sentirsi espressioni come “genitore 1 e genitore 2”, o “compagno del papà” al posto di “patrigno”.

Forse è qui che si vede davvero il potere di una lingua: quando deve inventare parole nuove per dire cose nuove, per accogliere realtà che prima erano invisibili o ignorate.


Alla fine, la lingua ti dice chi sei

Ecco, forse il punto è proprio questo. Quando studi una lingua, non stai solo imparando a dire “zio” o “nonno” in un’altra forma. Stai imparando come quella cultura costruisce il mondo dei legami. Chi è importante. Chi è vicino. Chi è incluso nella parola “noi”.
In alcune lingue, “cugino” è praticamente un fratello. In altre, “zii” e “nonni” sono lontani. In certe culture si distingue con precisione tra fratelli maggiori e minori, in altre no. In alcune, la parola “famiglia” può includere l’ex moglie del cugino di tua sorella. In altre, no.

E tu, mentre impari una lingua, inizi a vedere la tua famiglia in modo diverso. Ti chiedi: ma io, chi considero famiglia? E gli altri?


Imparare una lingua è anche questo: capire gli altri, e capirsi meglio

La prossima volta che impari una parola come “nipote” o “suocera”, non fermarti alla traduzione. Chiediti:
👉 Per questa cultura, chi fa parte davvero della famiglia?
👉 Quale relazione è così importante da avere una parola tutta sua?
👉 Quale legame si dà per scontato, e quale invece si celebra?

Ti sorprenderà scoprire quanto una semplice parola può raccontarti su come vive il mondo.

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